Vent'anni di DAMA a Milano nei ricordi di una volontaria

“Era la primavera 2000. Mio marito Angelo mi aveva detto che all’ospedale San Paolo di Milano era prevista la presentazione di un nuovo progetto per la cura delle persone con disabilità. ‘Saranno le solite chiacchiere’, mi sono detta, ma ci sono andata lo stesso. E invece è scoppiata la scintilla: sentir parlare Edoardo Cernuschi, allora presidente della LEDHA, mi ha emozionato. Ho capito che quello era il posto giusto per portare avanti l’eredità che mi aveva lasciato mia figlia Francesca e mantenere la promessa che le avevo fatto”.

Quel giorno, a Milano, prendeva vita il progetto DAMA, acronimo dall’inglese Disabled advanced medical assistance (o, in italiano, “Accoglienza medica dedicata ai disabili”) che ha permesso di “dare diritto di cittadinanza in ospedalealle persone con disabilità intellettiva e con difficoltà di comunicazione, come ricorda Angelo Fasani di Anffas Milano, tra i sostenitori dell’iniziativa. Un progetto innovativo, sviluppato grazie alla collaborazione tra LEDHA, l’ospedale San Paolo di Milano, la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano e Regione Lombardia. Un progetto che ha aperto la strada ad altre iniziative analoghe in tutta Italia e che lo scorso 7 dicembre ha ottenuto l’Attestato di civica benemerenza da parte del Comune di Milano; un riconoscimento che il Comune riserva a quei cittadini e a quelle associazioni che hanno saputo dare un contributo speciale alla città di Milano.

La sfida lanciata nel 2000 era ambiziosa: progettare e costruire da zero un modello di presa in carico delle persone con disabilità intellettiva o con difficoltà di comunicazione. Ragazzi, uomini e donne che normalmente trovavano gravi ostacoli nei percorsi ordinari di diagnosi e cura in ospedale. Un’esperienza che Edi Fasani aveva vissuto sulla propria pelle per lunghi anni assieme alla figlia: “Purtroppo i medici non erano abituati a considerare il fatto che le persone con disabilità si potessero ammalare come tutti. Che un ‘mal di pancia’ sottovalutato avrebbe potuto in realtà essere una peritonite -ricorda Edi-. Da quando mia figlia si è ammalata seriamente a quando qualcuno si è degnato di darmi una mano è passato troppo tempo. Ed è stato troppo tardi”. 

All’interno di questo modello, i volontari hanno svolto un ruolo fondamentale nella gestione e nella presa in carico dei pazienti con disabilità. Edi Fasani, con il suo vissuto, aveva ben chiaro come avrebbe dovuto essere strutturato un servizio rivolto a questa tipologia di utenti. “Per prima cosa -ricorda- ho pensato a quello che vivevano i genitori di persone con disabilità quando arrivano in ospedale. E che troppo spesso si sentivano dire dai medici: ‘Lei è una madre ansiosa’. Per me è stato chiaro fin da subito che la prima cosa da fare era aiutare questi genitori a ricostruire un rapporto di fiducia con i medici, aiutandoli a mettersi a proprio agio. Senza la fiducia non può nascere una relazione di cura”.

“L’approccio multidimensionale del DAMA nella presa in carico dei pazienti con disabilità grave è fondamentale”, spiega Valentina Salandini, direttore tecnico di ANFFAS Mantova, la prima realtà a replicare sul proprio territorio il modello del San Paolo di Milano con l’apertura del “Percorso Delfino”. “Se una persona con disabilità intellettiva si presenta in ospedale con un reflusso, probabilmente non sono davanti a un semplice problema di stomaco: occorre prendere in mano il paziente a 360 gradi e il medico del ‘Delfino” deve fare da mediatore con gli altri specialisti. Solo con un approccio multidisciplinare è possibile scoprire e affrontare le reali esigenze della persona”.

“Avevo appena completato la specializzazione, quando mi proposero di seguire le persone con disabilità al DAMA ero un po’ spaventata: non avevo competenze specifiche sulla disabilità -ricorda Sabrina Perazzoli, oggi medico responsabile del DAMA di Varese, è stata la prima internista del DAMA del San Paolo-. I primi pazienti che arrivavano al DAM erano particolarmente complessi, persone che non riuscivano ad accedere agli ambulatori o a essere seguiti dai medici di base. Le famiglie, inoltre, avevano alle spalle vissuti molto faticosi e si erano visti chiudere in faccia tante porte. Fortunatamente c’erano i volontari a svolgere un ruolo da ‘mediatori’ tra i medici e le famiglie”.

All’interno del progetto DAMA, i volontari hanno svolto diversi compiti che hanno permesso ai medici di svolgere in maniera più serena ed efficace il proprio lavoro. I volontari si sono dedicati all’accoglienza delle persone con disabilità, al supporto ai familiari nella compilazione dei documenti, all’acquisizione di informazioni utili allo svolgimento dei percorsi, l’affiancamento delle persone con disabilità e dei loro familiari durante le visite specialistiche e gli esami diagnostici. “I medici specialisti delle varie unità operative non erano abituati ad avere a che fare con persone con disabilità. Io e le altre volontarie affiancavamo i pazienti e i loro accompagnatori durante le visite e, in caso di necessità, ci attivavamo per contribuire alla soluzione dei problemi emergenti. Il nostro compito era quello di fare da ponte tra il DAMA e le varie unità operative”, ricorda Edi Fasani.

“Lavorare accanto a dei volontari come quelli del DAMA di Milano significa tantissimo. Sono stati loro a insegnarmi a come rapportarmi con le persone con disabilità e con i loro genitori”, ricorda Sabrina Perazzoli.

Dopo il primo triennio di sperimentazione, il DAMA è diventato un’Unità operativa dell’ospedale San Paolo di Milano, oltre che punto di riferimento per altri ospedali lombardi (Mantova e Varese in primis) e italiani che hanno replicato questo modello. In questi vent’anni DAMA ha registrato oltre 65mila accessi e attualmente sono poco più di 6mila i pazienti in carico. I volontari hanno svolto un ruolo essenziale per il funzionamento del DAMA: “La cosa più complessa era organizzare i follow up per quelle persone che venivano al DAMA, spesso anche da fuori Milano, e che in una sola giornata dovevano svolgere una serie di esami e accertamenti -ricorda Edi-. Incastrare il tutto poteva essere problematico: all’inizio avevamo 3-4 pazienti al giorno ma nel 2016, quando ho smesso di lavorare al DAMA, c’erano anche trenta pazienti in una sola giornata. Tra cui a volte anche persone con i follow up. Eravamo quasi sempre in due. E per riuscire a gestire le giornate più complesse a volte in tre”.

Dopo 16 anni di lavoro come volontaria, nel 2016 Edi Fasani è andata “in pensione” dalla sua attività a con una presenza di quattro/cinque giorni a settimana al DAMA. “È stata l’esperienza più bella della mia vita, dopo Francesca -ricorda senza esitazione-. È stato difficile, soprattutto all’inizio, ma è stata un’esperienza fantastica. Mi ha permesso di avere tanti figli: quello che non ho potuto vivere con mia figlia, l’ho vissuto attraverso gli altri ragazzi che ho incontrato al DAMA”.

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