Compartecipazione alla spesa, anche il Consiglio di Stato boccia il Comune di Milano

Il Consiglio di Stato con la sentenza 01485/2019 depositata in data 4 marzo 2019 ha respinto  il ricorso presentato dal Comune di Milano contro la  sentenza 00094 pubblicata in data 15 gennaio 2018 della Sez. III del T.A.R. per la Lombardia-Milano, con la quale erano stati annullati i provvedimenti comunali che prevedevano la necessaria “consumazione” del patrimonio mobiliare (la liquidità) di cui era titolare la persona ospitata in una RSD, eccedente la soglia di 5.000 euro, prima dell’intervento comunale integrativo. Detti provvedimenti, infatti, stabilivano che “nel caso in cui l’utente possieda beni mobili oltre la cifra di 5.000 euro, “l’amministrazione comunale differirà l’intervento fino a che queste risorse, impiegate per il sostegno dell’utente in forma privata non si saranno ridotte a tale importo di 5.000 euro”.

“Siamo molto soddisfatti per l’esito di questa sentenza, che non è per noi una sorpresa e non dovrebbe cogliere di sorpresa nemmeno il Comune di Milano -commenta Enrico Mantegazza, presidente di Ledha Milano e vice presidente di LEDHA-. Abbiamo più volte fatto presente al Comune come la delibera non fosse rispondente al dettato normativo, tuttavia siamo dovuti arrivare alle aule del tribunale. Speriamo ora che il Comune finalmente si sieda al tavolo con le associazioni e decida finalmente di dotarsi di un regolamento comunale unico per la compartecipazione alla spesa, che sia coerente con il dettato normativo nazionale”.

Sul tema della compartecipazione alla spesa, Ledha Milano e LEDHA sono pronte a fare la propria parte, in piena collaborazione con gli assessorati competenti del Comune di Milano, “tenendo anche conto che un regolamento redatto dal Comune di Milano sul tema della compartecipazione alla spesa sarebbe un punto di riferimento non solo per il territorio milanese ma anche per tutta la regione”, conclude Mantegazza.

La vicenda
Arriva così a conclusione una vicenda che ha avuto inizio nel 2015, con l’approvazione della Delibera di Consiglio Comunale n. 2496/2015, con cui il Comune di Milano stabiliva i criteri di compartecipazione alla spesa per i servizi di assistenza. In pratica, il Comune di Milano (così come altri Comuni lombardi) chiedeva alle persone con disabilità ospitate in strutture residenziali di “consumare” i propri risparmi, prima di intervenire integrando la retta di ricovero. A gennaio 2018 il T.A.R. ha accolto il ricorso presentato dall’amministratore di sostengo di una giovane con disabilità -patrocinata dall’avvocato Massimiliano Gioncada- con il supporto di Ledha Milano e Anffas Milano e ha stabilito che è illegittimo subordinare l’intervento economico comunale alla consumazione del “patrimonio” dell’assistito. Ora, a poco più di un anno di distanza, il Consiglio di Stato, massimo organo di tutela della giustizia amministrativa, si è pronunciato definitivamente sull’appello presentato dal Comune di Milano e lo ha respinto.

Cosa dice la sentenza
Risulta quindi definitivamente nulla la parte della delibera del Comune di Milano (Dgc 2496/2015) nella parte in cui si prevede che “nel caso in cui l’utente possieda beni immobili oltre la cifra di 5mila euro, l’amministratore comunale differirà l’intervento fino a che queste risorse, impiegate per il sostegno all’utente in forma privata, non si saranno ridotte all’importo di 5mila euro”. Per i Supremi Giudici “tale disposizione si pone in contrasto con la normativa sovraordinata”, ovvero quella regionale e nazionale.

La normativa regionale e quella statale, infatti, stabiliscono chiaramente che non solo l’accesso “ma anche la compartecipazione al costo delle prestazioni socio-sanitarie e sociali devono essere stabiliti avendo come base la disciplina statale sull’indicatore della situazione economica equivalente, l’ISEE (Dpcm. n. 159/2013) […] Deve quindi escludersi che il reddito dell’assistito ai fini dell’accesso e ai fini della determinazione della compartecipazione alla spesa possa essere definito dal Comune avendo per oggetto elementi diversi e ulteriori dal DPCM 159/2013”.

Il Consiglio di Stato ritiene che il “differimento o temporanea sospensione” dell’intervento comunale si rivela essere un’inaccettabile sospensione dell’applicazione della norma: se la persona richiedente una prestazione sociale agevolata deve essere valutata in base al proprio I.S.E.E., è in quel momento che, eventualmente, emerge il proprio diritto all’integrazione della retta e non in un momento successivo.

È vero che la Legge riconosce ai Comuni la possibilità di “prevedere, accanto all'ISEE, criteri ulteriori di selezione volti ad identificare specifiche platee di beneficiari, tenuto conto delle disposizioni regionali in materia e delle attribuzioni regionali specificamente dettate in tema di servizi sociali e socio-sanitari” (così l’art. 2 co. 1 del d.P.C.M. n. 159/2013), ma questi “criteri ulteriori” non possono essere di “natura economica” bensì solo “sociale” perché, diversamente, significa che ogni Comune potrebbe individuare criteri di accesso e compartecipazione che vìolano il decreto I.S.E.E., mentre questo indicatore, nello stesso articolo, è individuato quale “livello essenziale” per l’accesso e la determinazione della compartecipazione.

“La sentenza del Consiglio di Stato afferma in modo incontrovertibile e definitivo che i regolamenti comunali che pur formalmentee quindi solo in apparenza recepiscono il Dpcm. n. 159/2013 ma non ne danno corretta applicazione -poiché introducono una limitazione all’intervento comunale del tutto estranea al testo normativo del medesimo Dpcm- sono alla fine dichiarati illegittimi”, commenta Laura Abet, avvocato del Centro Antidiscriminazione Franco Bomprezzi di LEDHA-Lega per i diritti delle persone con disabilità.

Anche il Centro Antidiscriminazione Franco Bomprezzi esprime la sua completa adesione al dettato della sentenza, che esclude in modo inequivocabile la sussistenza di una “potestà di deroga” normativa in capo ai Comuni. “In nessuna parte del decreto, infatti, è previsto un meccanismo simile a quello che molti Comuni pretendono di adottare: vale a dire 'consumare' tutte le proprie sostanze fino al valore di 5mila euro, soglia al di sotto della quale si giustifica e si prevede la possibilità dell’intervento comunale a sostegno del pagamento della retta -conclude l’avvocato Abet-. L’invito a leggere attentamente i regolamenti comunali è quindi d’obbligo”.

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